(in «Marxismo oggi», 2001, n. 1, pp. 27-46, ripreso in Marcello Musto (a cura di), Sulle tracce di un fantasma. L’opera di Karl Marx tra filologia e filosofia, Manifestolibri, Roma, 2005, pp. 347-362; tr. tedesca in «Topos. Internationale Beiträge zur dialektischen Philosophie», n. 16, 2000; tr. ingl. in «NST Nature, Society and Thought. A Journal of Dialectical and Historical Materialism», University of Minnesota, 2000, pp. 339-357).
1. Rivoluzione, sfera economica e sfera politica
La storia del movimento comunista è attraversata da un problema di fondo. La rivoluzione non si è verificata nei punti alti dello sviluppo capitalistico, ai quali Marx per lo più guardava per il passaggio al socialismo. E allora, che fare? Scartata la «soluzione» socialdemocratica della riconsegna del potere politico alla borghesia o, peggio ancora, a classi dominanti di tipo semi-feudale e semicoloniale, la sfasatura determinata dalla mancata rivoluzione in Occidente è stata storicamente affrontata in tre modi diversi.
I primi due sono sufficientemente noti. Si può utilizzare il paese in cui i comunisti hanno conquistato il potere soprattutto come base per estendere la rivoluzione ai punti alti dello sviluppo capitalistico; oppure, preso atto degli sfavorevoli rapporti di forza a livello internazionale, il compito principale può essere individuato nell’edificazione, nel paese in cui si detiene il potere, del nuovo sistema sociale chiamato a prendere il posto del capitalismo. La prima scelta rinvia a Trotski, la seconda a Stalin. C’è però una terza possibilità: il paese più o meno arretrato in cui i comunisti hanno conquistato il potere si impegna in primo luogo nello sviluppo programmato delle forze produttive in modo da colmare il ritardo rispetto ai paesi capitalistici avanzati e procedere sulla via della costruzione del socialismo. E’ la via scelta dalla Repubblica Popolare Cinese a partire dal 1978 e dalla svolta legata al nome di Deng Xiaoping.
Secondo il Manifesto del partito comunista, una volta conseguita la vittoria, «il proletariato si servirà del suo potere politico per strappare alla borghesia a poco a poco tutto il capitale, per accentrare tutti gli strumenti di produzione nelle mani dello Stato, cioè del proletariato organizzato come classe dominante, e per accrescere, con la più grande rapidità possibile, la massa delle forze produttive». Tra questi due compiti Marx, che guarda ai punti alti dello sviluppo capitalistico, non vede alcuna contraddizione. Ma con l'avanzare del processo di «globalizzazione», egemonizzata dagli Stati Uniti, questa contraddizione si manifesta con nettezza: un paese in via di sviluppo che oggi, attraverso una nazionalizzazione radicale dei mezzi di produzione, si chiudesse ermeticamente al mercato capitalistico, rimarrebbe tagliato fuori dalla tecnologia più avanzata e non sarebbe certo in grado di risolvere il problema dello sviluppo delle forze produttive. Sempre il Manifesto, dopo aver richiamato l’attenzione sulle «industrie nuove», che non hanno più una «base nazionale», afferma che la loro «introduzione diventa una questione di vita e di morte per tutte le nazioni civili». Dunque, nelle condizioni date, per un paese avviato verso il socialismo risultano inevitabili concessioni più o meno ampie al mondo dal quale intende importare la tecnologia e alcuni elementi essenziali del processo di modernizzazione.
Pur necessaria ad un paese socialista che non voglia auto-condannarsi ad una permanente arretratezza economica (e impotenza militare) e che dunque voglia definitivamente superare la sua precedente condizione semifeudale e semicoloniale, la politica di apertura comporta l’emergere di uno strato sociale borghese che prospera mentre settori non trascurabili della popolazione continuano a subire condizioni di vita e di lavoro propri del Terzo Mondo. Si viene così a creare un fenomeno «mai visto nella storia». In Italia a notarlo è già Antonio Gramsci in relazione alla NEP a suo tempo introdotta in URSS: una classe politicamente «dominante» viene «nel suo complesso» a trovarsi «in condizioni di vita inferiori a determinati elementi e strati della classe dominata e soggetta». Le masse popolari che continuano a soffrire una vita di stenti sono disorientate dallo spettacolo del «nepman impellicciato e che ha a sua disposizione tutti i beni della terra»; e, tuttavia, ciò non deve costituire motivo di scandalo o di ripulsa, in quanto il proletariato, come non può conquistare il potere, così non può neppure mantenerlo, se non è capace di sacrificare interessi particolari e immediati agli «interessi generali e permanenti della classe» (Gramsci, 1971, pp. 129-30; cfr. Losurdo, 1997, pp. 249-50).
Succede però che, dinanzi a questo fenomeno «mai visto nella storia», una certa «sinistra» crede di poter denunciare la riconquista del potere da parte della borghesia. In realtà, Mao Zedong nel 1957 così sintetizzava l’atteggiamento che il partito comunista doveva assumere nei confronti della borghesia: «Sborsando un po' di denaro ci compriamo questa classe [...] Comprandoci questa classe l'abbiamo privata del suo capitale politico così che non ha nulla da dire» (Mao Zedong, 1979, pp. 475-6).
Già per Lenin, a caratterizzare la NEP è la sfasatura tra sfera politica (con il rigoroso controllo del potere politico da parte del partito comunista) e sfera economica (dove si fanno sentire la presenza e l’influenza di uno strato borghese più o meno ampio e più o meno forte). L’ansia comprensibile di chiudere questa sfasatura conduce alla fine prematura della NEP nella Russia sovietica e della fase di «nuova democrazia» nella Cina Popolare. Le conseguenze sono state indubbiamente negative per quanto riguarda lo sviluppo economico e sociale; d’altro canto, il permanere o l’accentuarsi di questa sfasatura, in conseguenza dei pur necessari compromessi con la borghesia interna e internazionale, crea una situazione densa di incognite e di pericoli, dinanzi ai quali non è lecito chiudere gli occhi.
Non solo non c’è immediata coincidenza tra sfera economica e sfera politica, ma a rendere più complesso il processo rivoluzionario interviene un altro fenomeno, acutamente analizzato dall’Ideologia tedesca. Dopo aver richiamato l’attenzione sulla divisione del lavoro all’interno della borghesia tra settori direttamente impegnati nell’attività economica da un lato «rami di lavoro che appartengono direttamente allo Stato» e «ceti ideologici» dall’altro, Marx sottolinea che, in determinate circostanze, questa divisione può divenire «scissione», ed una scissione che si sviluppa «fino a creare fra le due parti una certa opposizione e una certa ostilità» (MEW, III, 47 e 53). E’ quello che si verifica in Francia con la radicalizzazione giacobina della rivoluzione. Solo attraverso un processo complesso e contraddittorio la borghesia giunge ad assorbire «tutti i ceti più o meno ideologici». E dunque, ad esercitare il potere negli anni di Robespierre e del terrore giacobino non è propriamente una classe sociale ma un gruppo di intellettuali, un ceto ideologico e politico che, a causa di una serie di circostanze (l’entusiasmo e la mobilitazione di massa suscitati dalla rivoluzione, lo stato d’eccezione provocato dall’invasione delle potenze controrivoluzionarie e dalla guerra civile), si è in qualche misura autonomizzato rispetto alla classe sociale di provenienza.
Qualcosa di analogo si è verificato nel corso delle rivoluzioni del Novecento: il partito comunista tende ad autonomizzarsi rispetto al proletariato e alle classi popolari, con le quali pure continua ad essere legato da fili più o meno solidi o più o meno tenui. Ma è precipitoso prendere spunto da questo fatto per concludere che è già avvenuta la conquista del potere da parte di una «nuova classe», una «nuova borghesia» ovvero una «burocrazia» organicamente e pervicacemente antipopolare. Questo discorso crede di essere fedele al materialismo storico ma in realtà è incapace di sviluppare un’analisi materialistica delle conseguenze che lo stato d’eccezione permanente, in cui sono venuti a trovarsi i paesi socialisti, produce sul processo di formazione delle classi dirigenti. A detenere il potere, più che una classe sociale, è il partito comunista, un ceto intellettuale e politico che certo corre sempre il rischio di essere risucchiato dalle classi dominanti a livello internazionale, come ad esempio è avvenuto in Russia.
2. «Propaganda armata» e «guerra civilizzatrice» nel processo di globalizzazione
Ma ora è al quadro internazionale che dobbiamo rivolgere la nostra attenzione. Come leggere il processo di globalizzazione in corso? Già nel Manifesto del partito comunista troviamo l’osservazione, per cui «le più antiche industrie nazionali sono state e vengono tuttora quotidianamente distrutte»; per essere soppiantate da nuove «industrie che non lavorano più materie prime locali, bensì materie prime provenienti dalle regioni più remote, e i cui prodotti diventano oggetto di consumo non solo all’interno del paese, ma in tutte le parti del mondo» (MEW, IV, 466). La storia del capitalismo è la storia del mercato mondiale e della crescente globalizzazione. E’ così che Marx la descrive. L’Occidente conquista la sua egemonia planetaria trasformando l’Africa in una «riserva di caccia per i mercanti di pellenera», i quali ultimi sono poi costretti a lavorare in qualità di schiavi la terra resasi disponibile in seguito all’«annientamento», ovvero alla deportazione e allo sfoltimento massiccio, dei pellerossa. Una parte degli indigeni continua a subire «schiavizzazione e seppellimento» nelle miniere (MEW, XXIII, 788 e 779), svolgendo un ruolo essenziale per l’ulteriore, trionfale, avanzata dell’Occidente:
«Soprattutto a partire dal Seicento gli europei si servirono dell’argento americano per acquistare beni in una parte dell’Asia e rivenderlo ad altre parti dello stesso continente o sulle coste orientali dell’Africa. Fu in larga misura grazie a quest’opera di intermediazione che gli europei furono in grado di moltiplicare il loro capitale finanziario iniziale».
Questo viene poi impiegato sia per acquistare merci sia per promuovere lo sviluppo tecnologico a fondamento della rivoluzione industriale. Tali operazioni sono ostacolate dal persistente deficit della bilancia commerciale inglese nel rapporto con l’India e la Cina; ma ecco che intervengono la conquista del Bengala e le guerre dell’oppio a imporre il capovolgimento dei flussi finanziari a vantaggio della Gran Bretagna (Torri, 2000, pp. 256-8).
Anche gli sconvolgimenti interni all’Occidente risultano tra loro sempre più strettamente intrecciati. La crisi di sovrapproduzione, che si manifesta in Inghilterra nel 1847, provoca l’anno dopo lo scoppio della rivoluzione che, a partire dalla Francia, investe l’Europa continentale (MEW, VII, 97; cfr. Losurdo 1997, pp. 138-9). Agli inizi degli anni ’60, la guerra di Secessione negli USA e il conseguente blocco delle esportazioni di cotone proveniente dagli stati del Sud mettono in ginocchio l’industria tessile inglese, che procede a licenziamenti in massa. Né la Manica né l’Atlantico sono in grado di bloccare il propagarsi delle crisi e dei conflitti da un paese all’altro. Non c’è da stupirsi: «All’antica autosufficienza e all’antico isolamento locali e nazionali» – è sempre il Manifesto a sottolinearlo - subentra il «commercio mondiale» (MEW, IV, 466).
Quando leggiamo in Marx della tragedia dell’India, investita da un processo che oggi chiameremmo di globalizzazione, siamo portati a pensare all’Africa di oggi. Sotto l’onda d’urto «del vapore e del libero scambio made in England», più ancora che dei «militari britannici», e cioè della violenza militare diretta, le tradizionali «comunità familiari […] basate sull’industria casalinga» e «autosufficienti» cadono irrimediabilmente in crisi: «miriadi di laboriose comunità sociali, patriarcali e inoffensive» vengono «gettate in un mare di lutti, e i loro membri singoli privati a un tempo delle forme di civiltà tradizionali e dei mezzi ereditari di esistenza» (Marx-Engels, 1975, p. 76). La marcia trionfale del libero scambio è al tempo stesso il corteo funebre di una società che vede crollare la sua «intera impalcatura». Interi popoli vengono investiti da una tragedia senza precedenti nella loro storia: è la «perdita del loro mondo antico, non compensata dalla conquista di un mondo nuovo» (Marx-Engels, 1975, p. 72).
Nel tracciare questo quadro così crudo della globalizzazione, Marx mette però in guardia contro la tendenza a idealizzare le società travolte da tale processo: esse sono caratterizzate da una «vita priva di dignità, stagnante, vegetativa» e, nel caso dell’India, «contaminate dalla divisione in caste e dalla schiavitù»; mentre la miseria e l’assoggettamento delle grandi masse vi appare come «un destino naturale inevitabile» (Marx-Engels, 1975, p. 77). L’internazionalizzazione dell’economia è anche uno stimolo non solo al superamento dell’arretratezza e della stagnazione (economica e sociale) ma anche all’unificazione del genere umano. «Il periodo storico borghese ha creato le basi materiali del mondo nuovo: da un lato lo scambio di tutti con tutti, basato sulla mutua dipendenza degli uomini, e i mezzi per questo scambio; dall’altro lo sviluppo delle forze produttive umane e la trasformazione della produzione materiale in un dominio scientifico sui fattori naturali». Si tratta allora di rovesciare con «una grande rivoluzione sociale» o, almeno, di contrastare e limitare con lotte incisive il «dominio assoluto del capitale» in questo processo di globalizzazione e di sviluppo della ricchezza materiale (Marx-Engels, 1975, p. 118).
Abbiamo visto la dimensione economica del processo di globalizzazione, ma non bisogna trascurare quella militare. Siamo in presenza di un processo – osserva Marx – punteggiato e accelerato dal ricorso alla «propaganda armata» e alla «guerra civilizzatrice», come quelle scatenate dalla Gran Bretagna per imporre alla Cina l’apertura dei porti alle merci provenienti da Londra e, in primo luogo, il libero commercio dell’oppio, proveniente dalla «cultura forzata» di questa droga introdotta in India dai colonialisti inglesi (Marx-Engels, 1975, pp. 201 e 230). Più tardi, a proposito della formazione del mercato mondiale capitalistico, Rosa Luxemburg osserverà: «Sembrerebbe che, almeno qui,, la “pace” e la “uguaglianza” si profilino, il do ut des, la reciprocità degli interessi, “la concorrenza pacifica”, le “influenze civili” […] Ma il carattere pacifico di queste trasformazioni è pura apparenza». Come dimostrano per l’appunto le guerre dell’oppio e i conseguenti «progressi del commercio internazionale in Cina»: «Ognuno dei più che 40 treaty ports è stato pagato con fiumi di sangue, stragi e rovine» (Luxemburg, 1968, cap. XXVIII, pp. 383 e 392).
Ben diverso è, invece, il quadro tracciato da John Stuart Mill. All’amaro sarcasmo di Marx sulla «guerra civilizzatrice» fa da contrappunto la totale serietà con cui il liberale celebra le guerre dell’oppio come una crociata mirante a difendere la libertà del consumatore prima ancora che del produttore o del commerciante (Mill, 1972, p. 151), dunque come un contributo alla causa dell’unificazione del mondo all’insegna del libero mercato. E’ una tesi ribadita ancora nel Novecento da un patriarca del neoliberismo come Mises: «Che dal punto di vista dei liberisti non sia lecito porre ostacoli neppure al commercio di veleni, sicché ognuno è chiamato ad astenersi per libera scelta dai piaceri dannosi al suo organismo, tutto ciò non è così infame e volgare come pretendono gli autori socialisti e anglofobi» (Mises, 1922, pp. 220-1, nota). Stiamo citando un testo del 1922: tre anni prima si era verificato il trionfo del proibizionismo proprio negli USA particolarmente cari al profeta del neo-liberismo il quale però non sembra voler autorizzare la Cina a invadere il paese che si opponeva al libero commercio delle bevande alcoliche. Il testo del 1922 non ha comunque dubbi sul fatto che l'Occidente liberale ha pieno diritto di «spazzar via i governi che, facendo ricorso a divieti e restrizioni commerciali, cercano di escludere i loro sudditi dai vantaggi della partecipazione allo scambio mondiale, peggiorando così l'approvvigionamento di tutti gli uomini» (Mises, 1922, p. 221).
Prodotto in India per imposizione della Gran Bretagna, l’oppio viene esportato in Cina, a partire dalla quale comincia a scorrere un fiume di denaro che impingua le finanze e rilancia ulteriormente la produttività delle industrie inglesi. Il «mercato mondiale» ha preso forma e una forma anche più radicale di quanto non dicano Mill e Mises. Proveniente dall’Oriente, irrompe a Londra e nelle altre città industriali anche l’oppio: serve a camuffare la fame delle famiglie operaie, a calmare le grida dei bambini affamati, talvolta diviene persino lo strumento di un «infanticidio dissimulato»: i lattanti «si accartocciano come piccoli vecchietti e raggrinziscono come scimmiette». Riprendendo questi particolari raccapriccianti dagli stessi rapporti ufficiali, Marx commenta: «Ecco la vendetta dell’India e della Cina contro l’Inghilterra» (MEW, XXIII, 779 e 421).
Marx e la Luxemburg da un lato e Mill e Mises dall’altro ci pongono in presenza di due descrizioni sensibilmente diverse del processo di globalizzazione. Una sinistra degna di questa nome doverebbe stare ben attenta a non appiattirsi sulla visione armonicistica della tradizione di pensiero liberale e neo-liberista.
3. Globalizzazione e conflitti geopolitici
Ai giorni nostri, gli elementi di conflitto presenti in questo processo, ben lungi dall’essere dileguati, risultano nettamente più accentuati. Il Manifesto del partito comunista sviluppa la sua analisi in un momento in cui nessun movimento di emancipazione si profila nelle colonie: in tali condizioni la globalizzazione è, o sembra essere, un rapporto più o meno paritetico tra paesi con un grado di sviluppo più o meno omogeneo. Ora, invece, la globalizzazione è anche uno strumento con cui le grandi potenze cercano di riguadagnare il controllo dell’economia dei paesi che si sono scossi di dosso il dominio coloniale. Sulla stampa statunitense possiamo leggere questa significativa ammissione: la globalizzazione è un «programma aggressivo» che mira a «facilitare l’assorbimento dell’agricoltura e delle industrie locali» da parte dei colossi industriali e finanziari dei paesi capitalistici più forti (Pfaff, 2000).
Sia chiaro, l’espansionismo non è solo economico. E’ stato notato che, agli occhi della Nato, uno dei crimini più gravi di Belgrado risiedeva nel suo rifiuto di «adottare il modello neoliberista imposto dalla globalizzazione» (Ramonet, 1999). Sulla stampa americana si può leggere l’invito ad Israele a non fare nessuna concessione sul Golan «sino a quando non vede la Siria entrare nel mondo» e cominciare a «privatizzare e deregolamentare» (Friedman, 1999). Le cannoniere stimolano il processo di globalizzazione anche rimanendo sullo sfondo. Come ai tempi di Marx, la «propaganda armata» e la «guerra civilizzatrice» ovvero «umanitaria» continuano a far parte integrante del processo di globalizzazione.
Già al momento dello scoppio della guerra fredda, gli Stati Uniti hanno messo a punto una strategia su cui vale la pena di riflettere. Uscito dissanguato dal secondo conflitto mondiale, nel maggio del 1947, il paese pur sino a quel momento alleato degli USA viene posto, col piano Marshall, dinanzi ad un ricatto: se non vogliono rinunciare ai crediti e agli scambi commerciali di cui hanno urgente bisogno, «i Soviet [devono] aprire la loro economia agli investimenti occidentali, i loro mercati ai prodotti occidentali, i loro libretti di risparmio agli amministratori occidentali», devono «accettare la penetrazione economica e mediale» dei paesi che si apprestano a costituire la Nato (Ambrose, 1997, p. 10). Non a caso – è un’osservazione che possiamo leggere sempre sulla stampa statunitense – il varo del piano Marshall cade nello stesso periodo in cui viene fondata la Cia e serve anch’esso a finanziare «politici anticomunisti» e «la propaganda filo-americana camuffata all’estero come pubblicazioni e trasmissioni radio indipendenti», a finanziare la «guerra psicologica» nonché l’«attività coperta» dell’agenzia di spionaggio e le sue «misure sulla soglia della guerra» vera e propria (Fitchett, 1997).
In altre parole, la dirigenza sovietica viene posta dinanzi a questa alternativa: o integrazione subalterna nel mercato mondiale capitalistico oppure condanna ad una politica di apartheid tecnologica e di embargo più o meno radicale. In questo senso, Truman parla del piano Marshall, che dà un poderoso sviluppo alla globalizzazione tra le due rive dell’Atlantico, come l’altra faccia della medaglia della politica di «contenimento» (Ambrose, 1997, p. 10). Ovvero, per citare un politologo e polemologo americano dei giorni nostri, «il movente decisivo per la liberalizzazione dei commerci fu sempre di ordine politico e strategico»; e cioè il Gatt, il predecessore dell'odierna Organizzazione mondiale del commercio (Wto) fu «chiaramente concepito come il corrispettivo commerciale dell’alleanza strategica stretta dall’intero Occidente contro l’Unione Sovietica» (Luttwak, 1999 a, p. 172; Azzarà, 2000).
La disfatta dell’Unione Sovietica nel corso della guerra fredda (ovvero della «terza guerra mondiale») non ha posto fine a questa politica di Washington. Il politologo e polemologo statunitense già citato ha osservato, con compiacimento, che, data l’esclusione finora della Cina dalla Wto, «gli Stati Uniti sono ancora più liberi di assumere misure protezionistiche nei suoi confronti»: «con una metafora si potrebbe affermare che il blocco delle importazioni cinesi è l'arma nucleare che l'America tiene puntata sulla Cina» (Luttwak, 1999 b, p. 151). Ma è già pronta la politica da seguire una volta che il grande paese asiatico sia ammesso nella Wto: «per smuovere la Cina», Washington deve saper combinare «cannoniere, commercio, investimenti Internet», e, s’intende, la parola d’ordine della «democratizzazione» economica e politica (Friedman, 2000).
Siamo dunque in presenza di una strategia a tenaglia, con un braccio impegnato ad esercitare una terribile pressione economica, politica (e, sullo sfondo, militare) e l’altro braccio impegnato a promuovere l’infiltrazione e la destabilizzazione del paese di volta in volta preso di mira.
In conclusione, oggi come ieri e più di ieri, la globalizzazione non è affatto un processo privo di conflitti o che cancelli l’importanza della questione nazionale. Nel sottolineare, già nel 1848, la crescente «interdipendenza universale fra le nazioni» (MEW, IV, 466), il Manifesto del partito comunista metteva in guardia contro il pericolo della «guerra industriale di annientamento tra le nazioni». In effetti, l’«interdipendenza universale fra le nazioni» non ha impedito né i due catastrofici conflitti mondiali, né il gigantesco processo di emancipazione nazionale dei popoli oppressi che ha investito l’intero pianeta. Ancora oggi, per citare questa volta una rivista vicina al Dipartimento di Stato, «la crescente interdipendenza del mondo non comporta necessariamente una più grande armonia» (Nye Jr. e Owens, 1996, p. 24).
4. Tre generi letterari nel discorso di Marx
E’ dunque anche per ragioni di carattere internazionale che il processo di costruzione di una società socialista si rivela ben più lungo e tortuoso di quanto prevedessero Marx e Engels. Ma proprio per questo, per evitare di smarrire l’orientamento strategico, è bene tener presente i loro insegnamenti. Senonché, qui ci imbattiamo in una nuova difficoltà. Per chiarirla, prendiamo tre brani. Il primo, desunto dall’Ideologia tedesca, vede il comunismo come una società in cui sono scomparse ogni costrizione giuridica, ogni forma di divisione del lavoro e persino il lavoro in quanto tale, sicché ad ogni individuo risulterebbe «possibile fare oggi questa cosa, domani quell’altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare», a seconda della sua voglia, «senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore, né critico» (MEW, III, 33).
Vediamo ora cosa avviene, secondo il Manifesto del partito comunista, una volta che il capitalismo sia stato sconfitto e superato a livello internazionale: «Al posto della vecchia società borghese, con le sue classi e i suoi antagonismi di classe, subentra un’associazione in cui il libero sviluppo di ciascuno è la condizione per il libero sviluppo di tutti» (MEW, IV, 482).
Infine, il brano della Critica del programma di Gotha che prevede e auspica, dopo il rovesciamento del potere politico della borghesia in un singolo paese o in un gruppo di paesi, un periodo di transizione all’insegna della «dittatura rivoluzionaria del proletariato» (MEW, XIX, 28).
Si potrebbe dire che siamo in presenza di tre diversi generi letterari. Il brano desunto dall'Ideologia tedesca ci fa pensare ai romanzi utopistici che accompagnano il primo sviluppo del movimento socialista e della protesta di gruppi sociali oppressi. Gli altri due brani rinviano entrambi al genere storico-politico, ma con una differenza essenziale. L'evocazione di una grande rivoluzione, capace di cambiare una volta per sempre la faccia del mondo e di emancipare in modo radicale ogni individuo e i rapporti tra gli individui, questo discorso fa riferimento alla lunga durata dello sviluppo dell’umanità. Il brano desunto dalla Critica del programma di Gotha si preoccupa, invece, di indicare le misure concrete e immediate cui deve far ricorso il proletariato che abbia conquistato il potere politico in un determinato paese o gruppo di paesi.
Che possiamo e dobbiamo fare oggi di questi tre diversi generi letterari presenti nel discorso di Marx e Engels? Il primo, il romanzo utopistico è espressione di una protesta che non ha ancora preso coscienza di se stessa; se nella fase della lotta contro l'antico regime svolge un ruolo positivo di mobilitazione, nella successiva fase di costruzione del nuovo può però risultare d'impaccio. Irrinunciabili sono invece gli altri due tipi di discorso, ma non si deve perdere di vista il fatto che essi fanno riferimento a tempi storici diversi. L’atteggiamento più superficiale è di contrapporre la poesia della prospettiva di lunga durata alla prosa dei compiti immediati. Ad esempio, si può fare appello alla tesi del libero sviluppo di ogni individuo per condannare o screditare il potere politico scaturito dalla rivoluzione, il quale deve naturalmente saper frontegggiare le manovre dell’imperialismo e gli altri pericoli che lo minacciano. Una volta contrapposta ai compiti del presente, la lunga durata tende ad essere riassorbita nel genere del romanzo utopistico: la storia concreta della nuova società post-rivoluzionaria, che cerca di svilupparsi tra contraddizioni, tentativi, difficoltà ed errori di ogni genere, viene allora condannata in blocco come degenerazione e tradimento degli ideali rivoluzionari. Tale atteggiamento, che condanna il movimento reale in nome delle proprie fantasie e dei propri sogni, priva il marxismo di ogni reale carica emancipatrice.
Questa carica può dispiegarsi solo a due condizioni: a) bisogna depurare l’utopia dei suoi elementi irrealistici riassorbendola nel discorso di lunga durata; b) questo discorso deve a sua volta saper orientare la soluzione dei compiti del presente, senza ostacolarla o renderla impossibile con attese e pretese che non corrispondono alla situazione oggettiva; al tempo stesso, esso non deve mai perdere di vista la prospettiva strategica.
In campo propriamente politico, non perdere di vista il «libero sviluppo» di ogni individuo rivendicato dal Manifesto significa anche liquidare una volta per sempre l’argomento (caro sia al «socialismo reale» che alla «rivoluzione culturale») secondo cui, una volta assicurato il potere popolare, le garanzie formali di libertà sarebbero prive di significato o di reale importanza. Ma riconoscere l’importanza del governo della legge e dei diritti dell’uomo non significa inchinarsi acriticamente al sovrano di Washington. Alla sua pretesa di imporre in tutto il mondo il modello politico occidentale si può contrapporre un autore liberal americano, e cioè Rawls, il quale, nell’esigere la subordinazione dell'uguaglianza alla libertà, sottopone ad un'importante clausola limitativa il principio da lui formulato: esso è da considerare valido solo «al di là di un livello minimo di reddito» (Rawls, 1971, p. p. 542). E cioè, nei paesi ancora insufficientemente sviluppati, è logico che i diritti economico–sociali abbiano la priorità.
Si pensi alla catastrofe verificatasi in Russia: oggi, stando a documenti ufficiali di organismi dell'Onu, la durata media della vita è di circa 10 anni più bassa che in Cina: i circoli imperialisti, impegnati a infliggere alla Cina la stessa sorte già riservata all'Urss, lavorano per un sensibile accorciamento della durata media della vita e per una condanna a morte prematura di un quinto della popolazione mondiale. Sarebbe una catastrofe per i diritti economici e sociali, oltre che per i diritti nazionali, del popolo cinese. Non c’è dubbio: il «libero sviluppo» dell’individuo passa oggi attraverso il rafforzamento del potere popolare nei paesi socialisti.
Anche sul piano più propriamente economico bisogna saper intrecciare prospettiva di lunga durata e compiti immediati. Abbiamo visto che, al fine di sviluppare le forze produttive e rompere l’accerchiamento imperialistico, un paese socialista è costretto a importare industrie e tecnologie dai paesi capitalistici avanzati; per un altro verso, esso è chiamato a non perdere di vista il fatto che, assieme a queste industrie e tecnologie, penetrano rapporti sociali e ideologie caratteristici di quel mondo che intende superare. Si tratta, dunque, di rapporti sociali e ideologie che sin d’ora devono essere contenuti e controllati. Per tutto un periodo storico, l’analisi marxiana relativa agli squilibri regionali e all’intensificazione del lavoro e dello sfruttamento prodotti dallo sviluppo capitalistico sarà lo specchio critico non solo del capitalismo propriamente detto, ma anche di quanto di capitalistico vi è inevitabilmente in ogni transizione verso una società diversa. Epperò, questo prezioso specchio critico diverrebbe uno specchio deformante se, in base ad esso, si pretendesse di omologare in un unico giudizio di condanna la realtà di un paese capitalista e quella di un paese socialista in via di sviluppo, chiamato ad affrontare compiti tra loro contraddittori.
5. Diritti umani e «imperialismo dei diritti umani»
Mi sono soffermato sui problemi della costruzione e della difesa del socialismo. Ma quali sfide attendono il marxismo in Occidente? Qualche tempo fa, un sindacato americano ha esortato l’amministrazione di Washington a bloccare con ogni mezzo il trasferimento in Cina di «tecnologia aerospaziale chiave», col pretesto che questo trasferimento inciderebbe negativamente sui livelli di occupazione negli Usa («International Herald Tribune», 1995). Quel sindacato è l’erede dei sindacati gialli, affetti da nativismo e xenofobia, che tra Otto e Novecento, piuttosto che contro il padronato, preferivano lottare contro gli immigrati. Si tratta di un sindacalismo e di una sinistra che, secondo la denuncia di Engels, sono in realtà gli esponenti acritici di «una nazione che sfrutta tutto il mondo» (MEW, XXIX, 358).
E’ una messa in guardia, fatta propria anche da Lenin (1968, p. 654): ad essa, però, in Occidente spesso si rivelano sordi persino coloro che si richiamano al marxismo. Agitando la bandiera dei diritti umani, le grandi potenze capitalistiche sono riuscite a conferire un volto particolarmente seducente alle loro pretese egemoniche. Per la verità, non si tratta di un fenomeno del tutto nuovo. Si pensi alla storia dell’imperialismo britannico che, con la sua espansione, si sentiva impegnato a «rendere le guerre impossibili e promuovere i migliori interessi dell’umanità». Ad esprimersi in tal modo è Cecil Rhodes, il quale così sintetizzava la filosofia dell’Impero britannico: «filantropia + 5%» (Williams, 1921, pp. 51-2); dove «filantropia» è sinonimo di «diritti umani» e la percentuale del 5% sta ad indicare i profitti che la borghesia capitalistica inglese realizzava o si proponeva di realizzare mediante le conquiste coloniali e l’agitazione della bandiera dei «diritti umani».
Non molto diverso da quello di Rhodes è il logo che oggi presiede all’espansionismo statunitense. Per ammissione esplicita dei suoi ideologi, si tratta di «difendere i valori e gli interessi americani» in ogni angolo del mondo (Hoagland, 1996). Si assiste così ad un paradosso: per tanto tempo gli Stati Uniti sono stati il paese tra i più impegnati nel protezionismo economico e politico-ideologico: a metà dell’Ottocento, pur di sviluppare la loro industria nazionale, non hanno esitato a mettere in conto anche lo scontro con gli stati del Sud e la guerra di Secessione; sul piano ideologico-politico, nel periodo che va dalla rivoluzione francese sino al maccartismo, tutte le correnti democratiche radicali e rivoluzionarie sono state bollate come «un-american», e il loro seguaci perseguitati in quanto suscettibili di contaminare e infettare un paese felicemente caratterizzato dall’exceptionalism, da un destino sacro ed esclusivo. Ai giorni nostri, invece, gli Stati Uniti mirano a trasformare il mondo intero in un «libero mercato» e in una «democrazia» intesa come «libero mercato politico», aperto alle merci, ai «valori» e all’egemonia made in USA. Affermandosi a livello planetario, il libero mercato politico comporta il dispiegarsi indisturbato del soft power, definito – dalla già citata rivista, vicina al Dipartimento di Stato, – come «la capacità di conseguire gli obiettivi desiderati in campo internazionale» senza ricorrere alla forza militare (che rimane comunque sullo sfondo). In tal modo, l’amministrazione USA potrà realizzare le sue ambizioni: ben più del XX, il XXI secolo sarà il «secolo americano» per eccellenza, «il periodo del più grande predominio dell’America» (Nye Jr. e Owens, 1996, pp. 20-1 e nota e p. 35).
All’«imperialismo del libero mercato», che nell’Ottocento proprio i teorici del protezionismo statunitense rimproveravano alla Gran Bretagna (Steel, 2000, p. 21), si intreccia strettamente l’«“imperialismo dei diritti umani”» (Huntington, 1997, p. 284). Che importa a Washington se tutto ciò significa lo smantellamento dello Stato sociale e la liquidazione dei diritti economici e sociali sanciti dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, proclamata dall’Onu nel 1948 (artt. 22-26)? E che importa se tutto ciò comporta la liquidazione, altresì, dell’obiettivo dello «sviluppo di rapporti amichevoli tra le nazioni», sancito con particolare solennità già nel preambolo della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo?
Conviene riflettere sulle modalità di questa marcia del free-market imperalism e dell’human rights imperialism. Esemplare è la tragedia del Nicaragua sandinista. A suo tempo, gli Usa l'hanno sottoposto al blocco economico e militare, al minamento dei porti, ad una guerra non dichiarata, ma sanguinosa, sporca e contraria al diritto internazionale. Dinanzi a tutto ciò, il governo sandinista si vedeva costretto a prendere misure limitate di difesa contro l'aggressione esterna e la reazione interna. Ed ecco Washington ergersi a difensore dei diritti democratici conculcati dal «totalitarismo» sandinista. Vien fatto di pensare al boia che, dopo aver proceduto all'esecuzione, grida allo scandalo per il colore terreo e cadaverico della sua vittima. Un atteggiamento grottesco: eppure non sono mancate le anime belle della sinistra occidentale che si sono associate alle grida di scandalo del boia e alla condanna delle misure «liberticide» dei dirigenti sandinisti, il cui spazio di manovra dinanzi all'aggressione è stato progressivamente ridotto e annullato. Il risultato: elezioni in cui il popolo nicaraguense, già dissanguato e stremato, col coltello più che mai puntato alla gola, ha deciso «liberamente» di cedere ai suoi aggressori. Una tecnica analoga è stata messa in atto contro la Jugoslavia. Sarà poi la volta di Cuba e di altri paesi?
Disgraziatamente, come la Gran Bretagna poteva godere dell’appoggio di un «cristianesimo imperiale» (Hobson, 1974, p. 199), che si spingeva sino ad applaudire alle guerre dell’oppio, così ai giorni nostri vediamo all’opera una sorta di sinistra imperiale, che talvolta non esita a rivendicare sanzioni contro la Cina in nome dei «diritti umani»! Il bersaglio privilegiato della battaglia di Lenin è proprio la sinistra imperiale. Sapranno tener conto della lezione del rivoluzionario russo coloro che in Occidente si richiamano al marxismo? Oppure la benefica e doverosa riscoperta del valore anche sostanziale della «libertà formale» e del governo della legge comporterà una paurosa regressione teorica e politica?
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venerdì 25 maggio 2007
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